La prima volta che gli archeologi hanno esplorato i fondali marini | Una nave affondata 1400 anni prima: piena di tesori ancora intatti

Illustrazione di un archeologo in azione (canva FOTO) - marinecue.it

Illustrazione di un archeologo in azione (canva FOTO) - marinecue.it

I fondali marini continuano a restituire tesori inestimabili. In questo caso si tratta di una nave davvero antica!

L’archeologia marina è la disciplina che studia i resti del passato sommersi, dai relitti di navi antiche ai porti scomparsi, fino a città inghiottite dal mare. Unisce storia, scienza e tecnologia per ricostruire vicende umane che l’acqua ha custodito per secoli.

Le ricerche avvengono in ambienti complessi: correnti, profondità e visibilità ridotta rendono ogni immersione una sfida. Per questo si usano robot subacquei, sonar e strumenti di rilievo 3D, capaci di documentare siti difficili da raggiungere.

Questi studi hanno permesso di scoprire rotte commerciali antiche, tecniche di costruzione navale e oggetti quotidiani, offrendo una prospettiva unica sugli scambi culturali e sul rapporto delle civiltà con il mare.

Oltre al valore storico, l’archeologia marina aiuta a proteggere il patrimonio sommerso, spesso minacciato da traffici illegali o dal cambiamento climatico. Un campo dove ricerca e tutela vanno di pari passo, arricchendo la conoscenza del passato e la coscienza ambientale.

Un grande segreto…

Al largo della costa turca c’è Yassıada, un’isola che a prima vista sembra insignificante. Eppure, a poche decine di metri dalla riva, si nasconde un’insidia naturale: una barriera rocciosa che si spinge in mare per circa 200 metri. Qui l’acqua si alza improvvisamente fino a due o tre metri dalla superficie, un ostacolo invisibile capace di far naufragare più di una nave. Non sorprende che nel corso dei secoli numerosi vascelli abbiano trovato la loro fine proprio su questo scoglio sommerso.

Proprio a sud dell’isola, tra i 36 e i 42 metri di profondità, giace un relitto di epoca tardo-romana risalente alla fine del IV o all’inizio del V secolo d.C. Una scoperta che ha permesso agli archeologi marini di compiere passi decisivi nella comprensione delle tecniche navali dell’antichità. Le prime campagne di scavo si svolsero nel 1967 e nel 1969, come riportato dall’Institute of Nautical Archaeology.

Illustrazione di due subacquei (Canva FOTO) - marinecue.it
Illustrazione di due subacquei (Canva FOTO) – marinecue.it

La nave, il carico e i segreti del cantiere

Come riportato dall’Institute of Nautical Archaeology, la nave misurava circa 19 metri di lunghezza. Lo scafo era realizzato principalmente in cipresso, con la chiglia in quercia bianca, e costruito seguendo la tradizione greco-romana “shell-first”, cioè iniziando dal guscio esterno. Le giunzioni a mortasa e tenone, fissate con pioli, erano meno fitte e robuste rispetto alle imbarcazioni più antiche, ma ancora più solide di quelle, del tutto prive di pioli, tipiche del VII secolo.

Questa caratteristica, insieme alla precoce installazione di semintelai nella parte centrale, indica una lenta evoluzione verso un metodo più moderno, detto frame-first, dove si parte dall’ossatura interna. Il carico racconta altre storie. Nel vano di stiva sono state rinvenute circa 1.100 anfore, segno di un traffico commerciale su larga scala. Nella zona di poppa, invece, sono emersi oggetti di vita quotidiana: piatti tardo-romani, una coppa, brocche, pentole e quattro lampade di terracotta, una delle quali porta il marchio di un noto artigiano ateniese dell’epoca, utile a datare il naufragio.