Geoingegneria negli oceani: soluzioni innovative per contrastare l’impatto della CO₂ sulle acque

Illustrazione del pianeta Terra (Canva FOTO) - marinecue.it
L’aumento della CO2 va contrastato, e forse potrebbe essere la geoingegneria ad intervenire in modo diretto sugli oceani.
L’acidificazione degli oceani sta avanzando a un ritmo che fa davvero preoccupare. Secondo diversi studi, come quello riportato da Wang, quello di Anna-Adriana Anschütz e Jiaying A. Guo, tutti pubblicati nel 2025, il pH medio dell’acqua marina globale è sceso del 40% rispetto all’era preindustriale, e quasi metà di questo cambiamento è avvenuto dopo gli anni ’80. A contribuire a questo squilibrio è soprattutto l’anidride carbonica: circa il 30% dell’eccesso di CO₂ atmosferica viene assorbito dagli oceani, alterando il loro equilibrio chimico.
Negli ultimi anni, come riportato da un report del The Guardian, un piccolo ma crescente gruppo di aziende ha iniziato a investire in tecnologie sperimentali per “riparare” chimicamente i mari. In testa c’è Ebb Carbon, una startup statunitense che nell’ottobre 2024 ha firmato un accordo milionario con Microsoft per sviluppare la più grande iniziativa di rimozione marina del carbonio al mondo. La tecnica? Si chiama ocean alkalinity enhancement, o OAE, e consiste nell’aggiungere sostanze alcaline per tamponare l’acidità dell’acqua, ripristinandone il pH.
Ebb non è sola: la canadese Planetary Technologies ha raccolto oltre 11 milioni di dollari da investitori come BDC Capital, mentre Equatic, un’altra azienda del settore, ha venduto 60.000 crediti di rimozione del carbonio a Boeing. In pratica, le grandi industrie comprano questi “crediti verdi” per bilanciare le proprie emissioni, un po’ come se comprassero il permesso di inquinare, ma con un impatto ambientale potenzialmente positivo.
Il problema, però, è che queste soluzioni sono ancora agli inizi, e gli scienziati stanno cercando di capirne davvero gli effetti. C’è chi teme che, se usate su larga scala o troppo in fretta, possano causare danni agli ecosistemi marini. In particolare, il rischio è che si inneschi un fenomeno chiamato precipitazione carbonatica, dove si formano solidi che potrebbero ridurre la luce o confondere i pesci.
I limiti dell’ingegneria marina
La tecnologia OAE sviluppata da Ebb Carbon imita un processo naturale: la basificazione degli oceani, che normalmente avviene molto lentamente. In pratica, si tratta di immettere materiali alcalini, come l’idrossido di sodio, direttamente nell’acqua marina per contrastare l’acidità causata dalla CO₂. Il primo impianto dell’azienda, installato alla foce di Sequim Bay, nello stato di Washington, è in grado di rimuovere fino a 100 tonnellate di carbonio all’anno, e già entro l’estate 2025 verrà affiancato da un secondo sito a Port Angeles, capace di arrivare a 1.000 tonnellate annue.
Secondo il CEO Ben Tarbell, come riportato dal The Guardian, la chiave è il controllo affermando che monitorano costantemente il pH dell’acqua e, in un modo o nell’altro, possono bloccare l’impianto se i livelli si avvicinano a soglie critiche. Ebb ha persino condotto esperimenti con la tribù dei Lower Elwha Klallam per testare l’impatto “dell’alkalinizzazione” sui salmoni, usando condizioni altamente controllate.

Dubbi, proteste e uno sguardo al futuro
Nonostante le buone intenzioni, non tutti sono convinti che questa sia la strada giusta. Come riportato dal The Guardian, un caso emblematico è quello di Planetary Technologies, che nel 2022 ha iniziato dei test in mare nella baia di St Ives, in Cornovaglia. Il progetto ha sollevato proteste durate mesi: residenti, ambientalisti, surfisti e associazioni come la Cornwall Seal Group Research Trust hanno espresso preoccupazioni per le possibili ripercussioni sugli ecosistemi locali, in particolare sui sigilli grigi e sulla fauna ittica.
Alla fine, l’azienda ha interrotto le operazioni nel Regno Unito, dichiarando nel 2024 che il sito in Cornovaglia aveva del potenziale, ma che era diventato commercialmente non sostenibile. Nel frattempo, però, ha venduto crediti di carbonio a Microsoft e ottenuto nuovi finanziamenti. Per molti scienziati, il problema non è l’idea in sé, ma la mancanza di regolamentazione e dati verificabili. Alcuni ricercatori propongono alternative più naturali, come il ripristino degli habitat marini e la protezione delle foreste di kelp.